La famiglia rappresenta il principale supporto assistenziale per le persone con demenza: sulla famiglia, infatti, grava un significativo carico fisico ed emotivo a causa del deterioramento delle funzioni cognitive (quali memoria, linguaggio, pensiero, orientamento, capacità di riconoscere ed usare gli oggetti etc.) e dei disturbi psico-comportamentali (sospettosità, allucinazioni, alterazioni del tono dell’umore, del ritmo sonno-veglia, dell’appetito e del comportamento sessuale, vagabondaggio, aggressività verbale e fisica, apatia, indifferenza), tipiche manifestazioni sintomatiche di tale patologia neurodegenerativa. Il problema principale della demenza risiede, soprattutto, nell’alto grado di compromissione funzionale che determina deficit importanti nella capacità del paziente di svolgere le varie attività della vita quotidiana.
All’interno della famiglia, pertanto, fin dalla diagnosi, si stabilisce un equilibrio che si evolve con la progressione della malattia e che può essere messo in crisi da diversi eventi quali, per esempio, il peggioramento dei disturbi comportamentali del paziente e l’eccessivo stress del caregiver, cioè di colui che si prende cura, che dà assistenza.
La parola “cura” deriva dal latino cūra e significa sollecitudine, premura, diligenza, ma anche amore, affanno, preoccupazione: pertanto, “avere cura”, non è altro che la capacità di vedere l’altro non come semplice portatore di malattia che necessita di terapie, ma come una persona con i suoi bisogni organici, psicologici, relazionali, con i suoi sentimenti, il suo credo e le sue conoscenze, una persona che prima di essere curata ha bisogno di essere accolta e riconosciuta così per come è.
Diversi studiosi, tra cui quelli di Kitwood, individuano cinque bisogni umani che risultano essenziali in una persona con demenza: il conforto, l’attaccamento, l’inclusione, l’occupazione e l’identità. Il conforto corrisponde alla tenerezza, al calore, a tutto ciò che può placare l’ansia e la paura: la vicinanza sincera di un’altra persona, infatti, aiuta a sentirsi più fiduciosi, rilassati e meno spaventati di ciò che può accadere.
Rispetto al secondo bisogno, la persona ha necessità, soprattutto in condizioni di fragilità come nella demenza, di avere legami di attaccamento che creino una rete di sicurezza, garantendo il benessere dell’individuo. L’inclusione riguarda, invece, il sentirsi parte di un gruppo: spesso, infatti, le persone con demenza si trovano isolate e l’isolamento relazionale è uno dei fattori di rischio di peggioramento della malattia stessa. L’occupazione, inoltre, riguarda il sentirsi impegnati in qualcosa, avere, cioè, un progetto e portarlo a termine; ciò fa sentire la persona ancora competente e utile. Infine, vi è l’identità, sapere, cioè, chi si è e avere un senso di continuità con il passato: in una condizione, quale la demenza, in cui diverse fonti di identità vengono perse; diventa fondamentale il ruolo che hanno gli altri, sia familiari che professionisti, nel conferire un’identità alla persona con malattia degenerativa e nel permetterle di essere liberamente se stessa.
Il familiare rappresenta, pertanto, un compagno-accompagnatore nel processo di cura, nel percorso di vita della persona con demenza e ha bisogno, continuamente, di essere supportato, informato e formato, con l’obiettivo di raggiungere una migliore qualità di vita. Troppo spesso il caregiver non sa riconoscere i propri bisogni e l’eccessivo stress, l’eccessivo carico (burden) emotivo e fisico è pericoloso per l’intero sistema familiare. Ma quali sono i tipi di burden che la famiglia sperimenta durante il percorso di vita con il proprio congiunto? Anzitutto, occorre considerare il burden oggettivo, cioè lo stress legato alle attività concrete da svolgere: rientrano in questa categoria la gestione della cura della persona, delle terapie, dei sintomi e dei comportamenti problematici, la responsabilità nell’assistenza e lo stigma sociale, ovvero il peso dei pregiudizi che a volte si avvertono da parte degli altri. Il burden soggettivo, cioè quello provocato dal modo in cui il caregiver vive la situazione in cui si trova, include sentimenti di rabbia e di perdita per le rinunce personali, l’angoscia dovuta alla sofferenza del proprio caro, l’instabilità emotiva legata all’andamento della malattia e la consapevolezza della cronicità, associata alla sensazione che non ci sia via di uscita. Da ultimo, il burden istituzionale, che rappresenta lo stress derivante dalla difficoltà nel trovare informazioni e supporto adeguati quando necessario.
È importante, dunque, imparare a riconoscere alcuni segnali di stress che possono presentarsi anche contemporaneamente e che conducono, spesso, a significativi problemi di salute psicofisica.
Tra le altre cose, spesso, i familiari, per negazione, giustificano i comportamenti del proprio congiunto, attribuendoli al normale processo di invecchiamento o allo stress (“prima o poi mia madre migliorerà”); perrabbia o irritabilità, sperimentano sentimenti di collera nei confronti del paziente, complici le difficoltà e le frustrazioni provocate dal suo comportamento (“se mi chiede questa cosa un'altra volta, urlo!”); per senso di inutilità e disperazione o depressione, sono investiti da vissuti depressivi che influiscono sulla capacità di far fronte alle diverse situazioni che si presentano (“non mi importa più di niente”). In talune circostanze, le preoccupazioni causano l’insonnia (“che succede se esce di casa e si perde, se cade e si fa male”); in altre, la stanchezza è talmente significativa da rendere quasi impossibile portare a termine i compiti quotidiani (“sono troppo stanco per fare anche questo”). Naturalmente, tutto questo porta alla riduzione delle relazioni sociali: i familiari si allontanano dagli amici e dai propri interessi e hobby (“non mi importa se non vedo più nemmeno i vicini di casa”). Si può intuire che l’insieme di disagi e privazioni possa causare degli stati d’ansia: i familiari sperimentano l’ansia di affrontare un altro giorno e tutto ciò che riserva il futuro (“che cosa accade se ha bisogno di più cure di quanto io sia in grado di dare?”). Ed è inevitabile, purtroppo, l’insorgenza di problemi di salute o il peggioramento di quelli preesistenti: tali problemi iniziano ad avere il loro peso sia a livello mentale che fisico (“non ricordo più l'ultima volta in cui mi sono sentito bene”). La difficoltà nel concentrarsi, il senso di colpa o d’inadeguatezza e una serie di inconvenienti che alterano la vita quotidiana possono sovrastare l’esistenza del caregiver.
La lista che abbiamo appena esposta ed esplorata non è di certo esaustiva esaustiva, ma ritengo possa dare il senso dell’importanza che assume anche e soprattutto il prendersi cura di sé per poter essere un caregiver migliore, imparando a chiedere aiuto per diventare, anche, un caregiver informato e formato nell’acquisizione di nuove capacità e competenze. La vera prevenzione che tutti noi possiamo fare passa, pertanto, dall’allenamento di alcune competenze come l’ottimismo, la speranza, la resilienza: tutte abilità, queste, che ci permettono, quando arriva la malattia, di saperla affrontare e di continuare a vivere, nonostante la malattia stessa, in quanto, come afferma Natoli in L’arte inattuale della cura di Sé:
La sofferenza è un momento ineliminabile dell’esistenza e, però, nonostante questo, l’esistenza ha una sua bellezza e se riusciamo a diventare responsabili di noi nella sofferenza riusciamo anche a dire di sì alla vita nonostante tutto