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Il vomitaparole: “Il mio intelletto perdeva sangue”

Autore: Francesco Mercadante

NOTA D’APERTURA: chi scrive è un linguista, non uno psicologo, pertanto i criteri d’analisi non sono clinici; l’indagine, il cui tema è il linguaggio della devianza, è stata svolta all’interno di una Comunità Alloggio palermitana nella stagione accademica 2008-2009, durante la quale lo scrivente era docente incaricato di Analisi dei Testi presso il Corso di Laurea in Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione; a ogni colloquio di gruppo prendevano parte gli studenti, naturalmente guidati da una psicoterapeuta esperta.

Il personaggio che ci accingiamo a ‘incontrare’ ha trascorso all’incirca quarant’anni all’interno di un ospedale psichiatrico; in seguito alla chiusura dei manicomi, regolamentata dalla Legge 180 del 1978, è diventato membro di una comunità alloggio. La diagnosi che lo riguarda è quella di Schizofrenia di Tipo Disorganizzato.

Ciò che c’induce a presentare questo caso al lettore è la singolare e cervellotica complessità del sistema linguistico di questo ‘personaggio’, quello dell’eloquio disorganizzato per cui, nel rispetto dell’anonimato, lo abbiamo chiamato il vomitaparole. Tarchiato e in evidente sovrappeso, di statura inferiore alla media, con il labbro leporino, il vomitaparole si distingue prepotentemente dagli altri membri della comunità, otto-dieci, per un flusso di parole inarrestabile, una sorta di lingua personalizzata in cui dominano i temi del sacerdozio, della vita militare e della scuola et cetera. Ciò che cattura l’attenzione di chi lo ascolta è proprio l’insalata di parole che si forma ininterrottamente in seno al suo discorso. Di fatto, egli, pur vivendo in una piccola comunità, è il più distante da tutti e a tutti estraneo, tanto da divenire, non di rado, oggetto di scherno dei propri ‘coinquilini’, tutti schizofrenici. Chi s’affanni a tentare di comprendere l’eloquio del vomitaparole subisce un autentico bombardamento di stimoli: ne resta sedotto, affascinato, sbalordito, impaurito, essendo costretto a seguire degl’intrecci linguistici in cui i significati e le relazioni concettuali sono perennemente violati e ricollocati ben oltre il piano della comune convenzione comunicativa.

“Sono esistito solo io nell’incognita della vita reale, coniugale” afferma, prendendo la parola. Appare subito chiaro che l’unicità del ruolo nell’esistenza è la tipizzazione ideativo-espressiva del delirio. L’io della possibile referenza, che dovrebbe costituire il piano deittico della narrazione, viene immediatamente frammentato nell’incognita, cosicché si scopre facilmente che l’esistere è privo di legami d’appartenenza. Se si presta attenzione alla ricorrenza, cioè al fenomeno di ripetizione mediante il quale alcuni termini assumono tale rilievo da generare la coesione del messaggio, si ha il seguente riscontro, in parte anticipato: sacerdozioscuolavita militareguerracomandocomandantemissione.

“Il comando ne voleva uno solo… tanti militari, tanti indiani: ero un comandante, ero un sacerdote militare” è un’altra delle sue affermazioni. Molte delle sue frasi sono atti linguistici assertivi, con i quali egli annuncia solennemente qualcosa e mostra le proprie conoscenze sul mondo. Sostenute dal delirio, le sue funzioni predicative sono esperienze di alienazione, durante le quali si lascia attraversare da messaggi provenienti dall’esterno. Di conseguenza, egli, riferendo che il comando ne voleva uno solo (…ma io ero un comandante, per di più sacerdote militare), testimonia dell’imponente presenza di una sorta di autorità e rigenera la referenza annientata nell’incognita. L’identità è costruita, in materia di linguaggio, ai danni dell’identità stessa.

“La realtà è ideale. È irremovibile la mia presenza nel mondo della musica, una musica leggera che mi ha assicurato una vita più monotona, leggera, perpetua, musica leggera che va scomparendo piano piano”: le sue ripetizioni, talora, si fanno incalzanti, quasi coprissero un significante che giunge all’espressione solo quando non c’è più ragione di credere che qualcosa possa accadere o cambiare lo stato delle cose. Il messaggio, dunque, perde del tutto la propria forza illocutiva e l’enunciazione viene privata parimenti di una pragmatica essenziale. Non c’è intenzione comunicativa, come non c’è azione comunicativa. D’altronde, egli stesso, inconsapevole della propria dichiarazione, dice: “Ho fatto molti esami, ma non esisto come esaminato”.

La ricerca di un codice di comunione entro il quale si possa ricostruire la ‘trama’ del vomitaparole è faticosa, spesso anche inattuabile. Tuttavia, in alcune circostanze, sembra possibile recuperare una traccia di coerenza, sebbene – sia chiaro! – quest’ultima sia da intendersi come struttura profonda e sicuramente non di superficie.

  1. “So di suonare il pianoforte avvitato all’inno alla vita per la crescita dei denti”;
  2. “Mi hanno avvitato la spalla perché il pianoforte perdeva sangue”;
  3. “Il mio intelletto perdeva sangue”.

Anzitutto, sembra che il circolo retorico-figurativo ci conduca a considerare come legati i tre sostantivi vitaspalla e intelletto, quasi che vita fosse un iperonimo, cioè un termine di maggiore estensione semantica rispetto agli altri due. In apparenza, vita e spalla non sembrano legati vicendevolmente, almeno dal punto di vista lessicale, ma, dal momento che sappiamo per certo che il vomitaparole non usa termini che sono radicati nella realtà e che la spalla gli è stata avvitata perché il pianoforte perdeva sangue, essendo quindi necessaria all’uso del pianoforte, la vita è ciò cui l’uomo è legato-avvitato per eseguire un brano musicale, la vita, in altre parole, è la dimensione dell’incognita in cui ogni attività viene ‘disattivata’: essa accoglie e nasconde tutto. A questo punto, spalla e intelletto, essendo iponimi, cioè termini di estensione minore, costituiscono una sineddoche decisiva a indicare uno spostamento di senso verso cui bisogna rimediare per la realizzazione dello scopo: impedire la perdita di sangue per eseguire l’inno alla vita per la crescita dei denti. È oltremodo evidente, comunque, che qui una figura retorica non basta a giustificare ordine e contenuto dei costrutti. L’altro dato che emerge da questa analisi linguistica è la specificazione dello scopo, benché questo sia ermeticamente sigillato nella crescita dei denti; la qual cosa farebbe pensare a una sorta di teatro dell’assurdo in cui la coreografia e la scenografia sono assenti, quantunque citate nel testo come presenti e invisibili.

“Sono nato nel Cinquanta, ma sono redivivo nel Quarantacinque e nel Quaranta… Sono partito per la guerra nel Trentanove… Andavo in una scuola per sapere abitare il centro della casa. Stavo facendo il militare, ma sapevo che sapevo già abitare il centro della casa”: nella maggior parte delle sue asserzioni, si rileva un vero e proprio istituto della lingua, un’agenzia esterna che comprime la semantica e la allontana dalle opportunità relazionali, rendendo il vomitaparole ‘servo’ ignaro di remote, indistinte e imperscrutabili entità.